L'intervista

a cura di Silvana Castellano

Aldino, tua è la paternità dell’espressione” in-canto” riferita alla poesia.
Quando è cominciato l’in-canto?

Scrivo in "Fior di conio":

Canterò, discanterò
dissonando curerò
incantamenti incantando
Cercavo l’etichetta nuova
e non è pronta per
l’imbarazzo della poca scelta
tra nomi composti e neo-
logismi come: cantapoeta
poetacantante o cantaparlante ?

La data è 1984 e mi viene in mente che proprio in quell’anno la Biennale di Poesia di Alessandria, di cui già mi occupavo, promosse per la sua seconda edizione un incontro fra poeti e cantautori, catalizzatore il Club “Tenco” di San Remo nella persona del fondatore Amilcare Rambaldi.

Come andò e perché poni quel collegamento?

Andò bene, intervennero grandi nomi della poesia e del cantautorato italiani con buona attenzione da parte dei media, ma evidentemente mi dovettero sorgere delle perplessità se, in una forma espressiva un po’ sperimentale che ora considero piuttosto datata, espressi in quel modo la necessità di “altro”.

Altro?

Sì, altro dai cantautori e dalle loro canzoni, dal loro prendere le distanze dalla poesia…

Ti riferisci a qualche fatto o a qualcuno in particolare?

Ho in mente varie prese di posizione su “Il Cantautore”, l’organo di stampa ufficiale del Club Tenco, ma anche le opinioni di Paolo Conte alla tavola rotonda della Biennale di Poesia e le parole di De Gregori in una fugace conversazione… ma non è una novità che i cantautori abbiano da sempre sostenuto la loro distanza e la loro alterità dalla poesia e rispetto ai poeti, ripetutamente…

Per quale motivo, secondo te?

Non l’ho mai colto appieno, non mi hanno mai convinto le loro argomentazioni secondo cui la canzone richiederebbe testi verbali particolari, appropriati, a-poetici; ancora di meno mi trovo d’accordo con loro quando sostengono che, nelle canzoni, le parole e le musiche non si possono separare né considerare autonomamente.

Secondo te, invece, una canzone deve necessariamente essere anche poesia?

Non lo posso realisticamente sostenere né sperare ma, mi domando, che cosa ci sarebbe di male se così fosse? Che cosa avrebbe da perdere la canzone a fondarsi sul testo poetico?
Per quanto riguarda la poesia, i suoi rapporti con la musica paiono storia passata.
La poesia divenuta “lineare” e scritta si è ammutolita… ma questo fatto rappresenta una perdita, non un guadagno! Niente più ricchezza della voce, pubblico in ascolto. Intimismi, silenzi, anche inutilità…
E le canzoni, d’altra parte, a correre per il mondo solo su interessi commerciali, spesso a orecchie “di bocca buona” (passami l’artificio).
Non dico che ogni canzone debba essere fatta di poesia, per i testi delle canzoni vanno benissimo anche le prose. Dico, però, che una canzone (parliamo, ovviamente, di canzone d’arte) deve possedere un testo valido, solido. Si è, purtroppo, storicamente dissolto un connubio naturale strettissimo, quello fra i ritmi e le melodie delle musiche e i ritmi e le armonie delle parole poetiche.

Dunque, tu hai ripreso una tradizione antichissima, quella della poesia cantata, nonostante i silenzi dei poeti di oggi.

E’ indubbio che tanti poeti, oggi, scrivano nei silenzi e di silenzi. Occorre, del resto, riconoscere che questi processi generanti hanno portato la poesia del nostro tempo ad alti esiti. Dobbiamo anche rilevare che tanti poeti sono ritornati a recitare, a esibirsi come poeti sonori o solo come poeti che si leggono ad alta voce…

A questo proposito, tu partecipasti, anni fa, ad alcune attività del Gruppo “Baobab”. Ti pare che potesse essere, quello dei poeti sonori, il tuo ambiente artistico?

Sì e no. Enzo Minarelli, uno di loro e fra i più autorevoli, mi invitò all’incontro di Reggio Emilia (poteva essere l’autunno del 1993) e io fui felice di accettare. Mi esibii due volte fra i poeti sonori, a Pescara e ad Alessandria, e mie cose sono edite sulla rivista “Baobab” di Ivano Burani. Rispetto al loro lavoro fatto di sperimentazione radicale, tuttavia, le mie poesie in-canto erano e rimangono altro. Del resto, neppure i poeti sonori potevano ignorare l’universo-canzone e sono contento che avessero pensato a me; anche Giovanni Fontana, in un suo accuratissimo studio, non omette di dedicare una pagina ai vari cantanti, cantautori, poeti cantanti/cantati e si ricorda anche di me. Il mio disco d’esordio, inoltre, uscì con l’etichetta della TreVi3Pair, guarda caso di nuovo un luogo editoriale di poesia sperimentale e sonora.

Insomma, non sei poeta sonoro, ma ti riconosci appieno nell’alveo dell’oralità poetica.

Esattamente.

Torniamo alla poesia e alla musica: è facile farle convivere nell’in-canto?

Ritengo che si tratti di una convivenza naturalissima.
Certamente la musica, che è la componente forse più potente e potenzialmente più invadente, deve muovere passi leggeri e, se necessario, anche cedere il passo. Il testo verbale, per me, pre-esiste a quello musicale, lo ispira e gli conferisce varietà e ricchezza (in tanti, lo so, sostengono e praticano il contrario). La musica accetta di buon grado il ruolo ancillare ottenendo in cambio pieni vantaggi di libertà: le mie “canzoni” non sottostanno a regole, possono svolgersi in mille modi e durare quanto lo richiedono le parole. La voce, pure, si sottomette alle parole che canta, non si esalta nell’interpretazione, né ostenta se stessa.
La parola è centro dell’in-canto e perché non dovrebbe essere la parola della poesia quella che si lascia cantare e che fa cantare la lingua umana?

Tu non ti qualifichi come musicista, seppure tu componga le musiche, oltre che le parole, dei tuoi in-canti. Parlaci, allora, delle tue collaborazioni con i musicisti.

Mi è sempre scaturita naturalmente musica dalla poesia, anche da quella di autori del passato: quasi come in un gioco fra la pagina, la voce e le corde della mia Ramirez.
Cominciai tanti anni fa con l’“I’ mi trovai” del Poliziano, un testo fondamentale dell’Umanesimo, interpretato chissà da quanti cantori nei secoli; sognavo di poterlo presentare un giorno proprio a Firenze, ma nelle mie occasioni fiorentine, in piazza Santo Spirito e alle “Giubbe Rosse”, mi sembra di avere poi cantato altro.
La spontaneità, tuttavia, può generare solo tracce; ho trovato, ormai da parecchi anni, in Mario Martinengo la competenza musicale e la sensibilità necessarie a compiere l’operazione del canto di poesia. Con lui è nato il primo disco (di certo uno degli ultimi a uscire su vinile, così lo abbiamo voluto, come a concludere un’epoca). Abbiamo lavorato, insieme, sulle poesie di tanti poeti, abbiamo inciso varie raccolte, ci siamo esibiti anche in luoghi che riteniamo di grande importanza e di forte suggestione.

A questo proposito, qualche “uscita” ti è rimasta particolarmente impressa?

In tanti anni sono state innumerevoli le esibizioni, nei più svariati contesti (mi piace ricordare quando siamo passati, nel giro di qualche giorno, dal Circolo della Stampa di Milano a un piccolo paese del Monferrato: ebbene, il primo pubblico molto diverso dal secondo ma, cosa per noi molto gratificante, la stessa dimostrazione di interesse e la stessa manifestazione di… assorto incantamento).
Il momento più alto negli anni, però, è rappresentato dalla prima dell’opera poetico-teatrale Il Sacco di Sant’Agostino a Pavia, in San Pietro in Ciel d’Oro, sull’altar maggiore proprio ai piedi del mausoleo di Sant’Agostino: per me, per Mario Martinengo e per Corrado Cicciarelli, autore e interprete con noi dell’opera, sensazioni assolutamente indimenticabili.

E i poeti? Tu li conosci piuttosto bene, come hai lavorato con loro?

Conosco personalmente molti poeti, soprattutto per la mia attività di organizzatore di manifestazioni nell’ambito della Biennale di Poesia di Alessandria; in quelle occasioni, più di una volta, sono scaturiti progetti di collaborazione e alcuni di quei progetti sono divenuti realizzazioni compiute.

A qualcuno di loro ti senti più vicino?

Non ho mai nascosto quanto la poesia di Ettore Bonessio di Terzet mi ispiri nella dimensione della musica e del canto: la poesia di Bonessio, forte quasi rude eppur dolcissima, per me è estremamente feconda; ma anche la parola poetica religiosamente ispirata di Corrado Cicciarelli è stata fonte di tanta musica e le poesie d’amore di Donatella Bisutti hanno dato sostanza a una raccolta. Come dimenticare, poi, la collaborazione con Antonietta Dell’Arte da cui sono scaturiti pezzi molto belli o quella con Corrado Antonietti, di cui ho musicato solo tre brevi poesie, forse fra le cose mie più originali? Fino agli “ultimi”, ma solo in ordine di tempo: Roberto Pasanisi dalla voce poetica leggera e dai racconti intrisi di mito; Salvatore Ritrovato, incontrato quasi per caso ed ecco un suo testo poetico divenire in-canto e aggiungersi, ormai in dirittura d’arrivo, all’album Fra i rami e Loris Maria Marchetti che mi ha consentito di lavorare su "Lapidi", un suo testo di contenuto storico.

E, ora, da qualche tempo, il Gruppo dell’Incanto e Fra i rami, la prima incisione della formazione…

Confesso una mia crescente voglia di maggiore ampiezza strumentale, di gioco interpretativo allargato; così, passo dopo passo, a me e a Mario Martinengo si uniscono Giorgio Penotti, anch’egli con del lavoro musicale sulla poesia alle spalle e polistrumentista; Gino Capogna, percussionista estremamente sensibile e disponibile a lavorare nell’ottica dell’in-canto; poi Serena Torti, giovane cantante per la quale, in passato, scrissi tante canzoni (per bambini, non “da bambini”, nell'ambito di mie collaborazioni con il mondo della scuola). L'organico del Gruppo dell'Incanto si è arricchito poi di Andrea Negruzzo, pianista; di Serafina Carpari, cantante di notevole professionalità ed eleganza interpretativa e della voce recitante di Daniela Desana.
Insieme abbiamo affrontato e continuiamo ad affrontare varie realtà di spettacolo e di comunicazione artistica e abbiamo realizzato Fra i rami, Città Stella e I Gatti. Abbiamo anche arricchito il repertorio in direzioni forse, prima da me considerate non praticabili: "Di nobile canzone", ad esempio, comprende anche De André.

De André?

De André è stato per me il paradigma del canto: pur non potendo sperare di avvicinarmi a lui (Fernanda Pivano ritenne la sua voce ineguagliabile), ho sempre usato naturalmente la mia voce in modo simile. L’ho amato molto, almeno fino a un certo punto della sua produzione, ma non avevo mai interpretato sue canzoni in pubblico. Riconosco, ora, che la sua esperienza artistica costituisce un’espressione alta della canzone italiana e non solo italiana; non ritengo che lo si possa definire (con una certa superficialità) "poeta” (come fanno in molti), ma considero i suoi pezzi molto alti, sicuramente di ambito "poetico", e alcuni adatti anche a me. Insomma, è un regalo che mi faccio, quando canto De André.

Nessuna delusione?

Meglio parlare di soddisfazioni “nei limiti”: in Italia, dove ci si spinge al più alla canzone d’autore e dove la poesia non ha praticamente pubblico, la poesia cantata non può rivolgersi che a un’élite d’ascolto. Altrove non è così, vi sono realtà culturali molto differenti...
C’è, poi, la stima dei poeti con cui collaboro, c’è il modo di partecipare del pubblico ai nostri concerti, c’è l’incoraggiamento di certa critica e voglio ricordare quello, autorevolissimo, di Giorgio Bárberi Squarotti, che considera il cantare poesia cosa naturalmente lecita.
E ci sono, fra gli altri, i colti e raffinati commenti di Gio Ferri e di Luisella Carretta al nostro primo disco, di Letizia Lanza e di Elvira Mancuso a Fra i rami, di Loris Maria Marchetti a I Gatti a darmi soddisfazioni “senza limiti”.

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